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Se le regole sono sacrificate in nome della competitività

, di Stefano Liebman - direttore della Scuola di giurisprudenza
Le modalità dell'incidente alla ThyssenKrupp di Torino evocano lo spettro di modelli produttivi superati in tutto l'Occidente e mal sopportati anche nei paesi in via di sviluppo

Apochi mesi dalla promulgazione della legge delega per il riassetto e la riforma della normativa sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, l'incidente nello stabilimento torinese della ThyssenKrupp ha riportato al centro dell'attenzione un aspetto che tende a essere sottovalutato nel dibattito sui grandi temi dell'economia e della società del terzo millennio.

Per le modalità con le quali il tutto si sarebbe svolto, oltre che per l'entità del disastro e il numero delle vittime, la vicenda evoca lo spettro di un modello di organizzazione produttiva che si supponeva non più nemmeno ipotizzabile nell'occidente tecnologicamente all'avanguardia: gli estintori vuoti, l'assenza di adeguati sistemi automatici di prevenzione/contenimento degli incendi, le vie di accesso per il soccorso bloccate dal venir meno dell'energia elettrica, l'apparente assenza di quegli standard minimi di sicurezza di uno qualunque dei paesi industrialmente avanzati. Un complesso di fattori e di "sfortunate coincidenze" che richiamano alla memoria un passato che si riteneva sepolto, ovvero i resoconti di incidenti occorsi, anche recentemente, nelle realtà produttive di paesi impegnati a uscire dal sottosviluppo: un qualcosa di incompatibile con il modello sociale ed economico nel quale siamo abituati a riconoscerci.

L'eccezionalità del tutto non deve però far dimenticare lo stillicidio ininterrotto di incidenti sul lavoro che, con minor eco mediatica e conseguente impatto sull'immaginario collettivo, portano annualmente a diverse centinaia (nel 2006 più di 1.000 unità) il numero di morti bianche. Per non parlare del fatto che i decessi sono solo la punta di un iceberg costituito dalle centinaia di migliaia di incidenti che determinano inabilità su un elevato numero di lavoratori, con tutto ciò che ne consegue anche in termine di costi per la società.

È proprio su questi dati che deve focalizzarsi l'attenzione di chi, dalle più diverse prospettive di accostamento (giuridica, di teoria economica, di teoria dell'organizzazione), si occupa dei problemi connessi alla regolazione del mercato del lavoro, così negli aspetti relativi alle modalità di accesso, come in quelli legati alla concreta gestione organizzativa del complesso aziendale.

A questo proposito va detto che, nel nostro paese, un'articolata legislazione antinfortunistica c'è già e sarebbe più che sufficiente a garantire livelli di sicurezza accettabili. Accanto ad alcune carenze degli apparati di controllo, ciò che invece manca è una condivisa cultura della sicurezza del lavoro. Un'assenza che è riconducibile alla più generale carenza di una sedimentata cultura delle regole, ma che per essere correttamente valutata in riferimento alle tematiche della sicurezza sul lavoro, deve essere collocata nel contesto di una competitività che si gioca a livello planetario e la cui esasperazione rischia di mettere in discussione alcuni dei principi base della convivenza civile.

Che la globalizzazione dei mercati porti un'accentuazione della concorrenza, fra singole imprese così come fra interi sistemi economico-sociali, è un fatto assodato. Altrettanto può dirsi dei benefici che derivano dal corretto svolgersi di questa competizione, nel momento in cui essa si gioca sul piano del maggior soddisfacimento possibile del consumatore.

Ciò su cui è necessario concentrare gli sforzi nel prefigurare scenari di sviluppo sostenibili è il modo in cui essa deve svolgersi senza superare i limiti posti dalla necessità di salvaguardare la vita e la salute dei cittadini.

In una tale prospettiva, la sicurezza dei luoghi di lavoro è un costo che si ripercuote sulla redditività delle imprese, ma è soprattutto un valore che non può essere sacrificato sull'altare della competitività. Lo impone la nostra Costituzione ed è solennemente riconosciuto dalla Ue e dall'International labour organisation.

La drammatica vicenda di Torino non può non valere come un monito per la nostra coscienza di cittadini di quella che, nonostante tutto, resta una delle maggiori potenze industriali: la competizione si svolge anche sul mercato delle regole, ma il nostro paese non deve giocare la propria sopravvivenza economica sulla tolleranza, anche solo passiva, di comportamenti altrove non accettabili.