L’Onu contro la pena di morte, una battaglia italiana
L'approvazione della risoluzione anti-pena di morte da parte dell'Assemblea generale dell'Onu segna una tappa importante nello sforzo per umanizzare la pena e garantire la correttezza dei processi, specie quelli dove è in gioco la condanna capitale. "Un passo coraggioso" l'ha definito il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon; una "pietra miliare" per l'alto commissario ai diritti umani Louise Harbour.
In molte regioni del mondo la condanna a morte è ammessa e praticata con modalità a volte raccapriccianti. Anche a prescindere da questi eccessi, pure negli Stati Uniti, dove la sua legittimità costituzionale non è messa in dubbio, si riconosce che la sua applicazione comporta sofferenze tali da renderla inumana. Non a caso è attesa al riguardo una decisione della Corte suprema. L'Italia si fa vanto a ragione di essere stata in prima linea nel far passare la risoluzione, con un'opera volta a coagulare consensi anche se al costo di puntare sulla moratoria piuttosto che sulla messa al bando. Il primo successo è stato di ottenere l'appoggio di tutti i paesi dell'Unione europea: ciò è in linea con gli ideali che animano l'integrazione europea e con l'impegno, non sempre rispettato, di agire con una sola voce nelle sedi internazionali.
Certo, la messa a morte è già bandita dalla Convenzione europea dei diritti umani. Non così nei 54 paesi che si sono opposti alla delibera. Così, parecchi stati che di fatto non la praticano, come Singapore, hanno rivendicato la libertà di determinare l'assetto del loro sistema penale, criticando la crociata europea come un'intrusione.
Molti oppositori della pena di morte hanno deplorato che la risoluzione abbia puntato alla moratoria invece di chiedere la soppressione della pena capitale. È stato anche sottolineato che una risoluzione dell'Assemblea generale è per sua natura non vincolante. Ma non è da poco aver ottenuto che 104 paesi invitassero quelli che tuttora mantengono la pena di morte a restringerne progressivamente l'uso, a ridurre il numero dei reati per i quali essa può essere applicata e a sospendere le esecuzioni "in vista della sua abolizione", oltre che a rispettare i diritti fondamentali degli imputati che la rischiano.
Ma il contesto globale di stati sovrani non consente imposizioni. Su un tema così delicato non si può che procedere per piccoli passi, aggregando consensi in modo progressivo e puntando a sensibilizzare l'opinione pubblica. L'uso diffuso della pena capitale, in certi paesi quasi indiscriminato (Cina) o con modalità rivoltanti (Iran) o in modo segreto (Giappone), porta a ritenere che la raccomandazione dell'Onu sia un progresso importante nel cammino dell'umanità in materia penale. La sfida è sempre quella: perseguire il giusto equilibrio tra tutela della società dal crimine e certezza ed effetto dissuasivo della pena, specie per i più gravi reati, da un lato, e, dall'altro, umanizzazione della pena stessa e garanzie processuali anche nei confronti dei criminali più pericolosi.
In Italia, indulti, prescrizioni, libertà condizionali a pioggia sembrano invece indicare maggiore sollecitudine per il colpevole che attenzione alle esigenze di protezione della società e alla tutela per le vittime. Opporsi alla pena di morte non implica essere soft on crime, Caino resta Caino. Le due questioni non sono così lontane come potrebbe sembrare: attenti a non indebolire le nostre credenziali in vista degli sforzi che saranno richiesti per portare a termine la battaglia contro la pena di morte, questa "causa dell'umanità", per dirla col Beccaria, di cui l'Italia ha deciso generosamente di farci carico.