L'eccellenza richiede coraggio
Negli anni Novanta le previsioni dei futurologi teorizzavano il trionfo del telelavoro e la possibilità di operare stando comodamente alla scrivania della propria casa. D'altra parte, nell'economia della conoscenza, il prodotto era assolutamente immateriale e distribuibile attraverso la rete virtuale delle nuove tecnologie e quindi tali previsioni sulla fine dell'artefatto architettonico centralizzato sembravano più che persuasive. Oggi però, a più di quindici anni da allora, è ancora l'ufficio il fulcro attorno al quale ruota la maggior parte dell'economia dei paesi sviluppati e della vita dei colletti bianchi, con i loro rituali e le loro cerimonie organizzative. E ciò è particolarmente vero per i cosiddetti talenti creativi, che poi rappresentano in Italia ormai quasi il 30% della forza lavoro. I quali, anzi, richiedono un livello qualitativo degli uffici e dei palazzi lavorativi molto alto, al punto da fare della sede professionale uno dei principali fattori motivanti. Le ultime indagini condotte sugli elementi di attrattività che fanno di alcune organizzazioni i migliori "great places to work" collocano ai posti prioritari della classifica proprio l'estetica e la funzionalità degli spazi lavorativi. Il luogo dove si svolge la professione è una caratteristica importante della comunicazione interna ed esterna e finisce per essere anche un fattore di rilevante dignificazione sociale dei lavoratori. Soprattutto per chi come banche, assicurazioni, imprese di servizi professionali, ma anche concessionarie o spazi di ristorazione, si gioca la propria identità sull'ambiente lavorativo, il quale contribuisce in modo determinante ad arricchire di "esperienza" il servizio e favorisce così una riconoscibilità specifica della personalità aziendale, facendo sentire il cliente a proprio agio o totalmente a disagio, a seconda dei casi. Ed è per questo che gli spazi lavorativi disegnati per i ricercatori o per chi si occupa di produzione intellettuale hanno necessità di piccole rivoluzioni culturali rispetto alla tradizione. C'è bisogno in questi luoghi di saper intercettare la contemporaneità, magari rischiando rispetto ad un gusto più accettato ma sicuramente più ingessato rispetto all'innovazione. L'ambiente lavorativo dei talenti è la casa delle idee e, se è vero che il made in Italy deve puntare su creatività e cambiamento, la considerazione più elementare è di concentrare l'attenzione sul nuovo nel posto dove il lavoro intellettuale si esprime per otto-dieci ore al giorno. I lavoratori delle nuove fabbriche, i knowledge workers, hanno bisogno di ambienti che rendano le persone più serene e sempre meno simili agli annoiati travet che ricordiamo nell'iconografia novecentesca in bianco e nero, dove gli uffici erano alveari burocratici pieni di scrivanie e di impiegati in mezze maniche chini sui loro scartafacci.
Il palazzo dello Studio Grafton di via Roentgen a Milano è un'operazione architettonica sofisticata, ancora da personalizzare e da perfezionare su misura come un abito sartoriale, ma già chiaro nella sua struttura coraggiosa e azzardata. Un azzardo doveroso di una istituzione che deve dimostrare nel suo campo di saper rompere gli schemi, di mettere insieme competenze diverse, di riuscire ad osservare i vecchi problemi del mondo in modo nuovo. Il contesto conta per diffondere nuove prospettive, e come.
E una università come la Bocconi è obbligata ad essere pioniere anche nello spazio lavorativo per le sue risorse umane. Uno spazio capace di stimolare la sfera emotiva, con pregnanza di lettura non scontata rispetto al passato.
Un ateneo che si prefigge l'eccellenza deve insegnare ad osare, ma deve sapere anche osare al suo interno. E la nuova sede della Bocconi avverte precocemente una certa evoluzione del modo di vivere e anticipa il campo cognitivo cui va incontro la comunità. Un giusto contributo per catturare negli spazi dell'ateneo il valore della produzione culturale internazionale più creativa e per consolidare anche in tal modo il proprio vantaggio competitivo.