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Gioielli vendonsi

, di Carlo Alberto Carnevale Maffe' - professore di strategia e imprenditorialita' alla SDA Bocconi
Made in italy in mani straniere

"AAA Vendonsi gioielli industriali di famiglia, causa globalizzazione dei consumatori. Astenersi improbabili cordate imprenditoriali nostrane". Da alcuni anni questo annuncio si può cogliere tra le righe dei bilanci e nelle note a margine dei piani strategici di molte aziende italiane. I casi di Bulgari e Parmalat, ma anche quelli, sia pure con dinamiche diverse, di Fiat, Prada e Ferragamo, sono indicatori di una radicale rivoluzione negli assetti proprietari di quel pezzo di capitalismo italiano che si confronta con i nuovi mercati mondiali, ben diverso da quello di taglio oligopolistico delle utility nazionali. Mentre queste ultime sono oggetto di interminabili contorsioni (Telecom Italia, Alitalia) o di interscambio istituzionale (Edison, Wind), per le imprese che operano su mercati concorrenziali internazionali la partita degli assetti proprietari è più che mai aperta. Non avendo mai attecchito in Italia né il modello di public company né quello di azienda a radicamento locale come nella tradizione germanica, le opzioni si riducono alla proprietà famigliare o al protettorato politico-finanziario. Se non si vuole languire nell'assenza di crescita o nella mediocrità, l'alternativa più praticabile rimane la vendita o la fusione con un gruppo estero.

Le ragioni sono essenzialmente tre: il fabbisogno di capitali; l'evoluzione del modello organizzativo; la necessità del supporto istituzionale all'estero. Tali fattori impattano più sulle imprese che producono beni di consumo che su quelle che si focalizzano su beni strumentali o comunque su mercati B2B. È cresciuto notevolmente il livello di investimenti necessari per presidiare i mercati finali. L'Occidente non cresce più e le opportunità vanno cercate nella domanda dei nuovi mercati. Le medie imprese specializzate nel B2B avevano già delocalizzato molti processi produttivi e sono state avvantaggiate al momento di affrontare la nuova domanda locale. Ma il "made in Italy" tradizionale che deve scendere a valle nel sistema del valore per cercare nuovi sbocchi sui mercati emergenti si scontra con la necessità di finanziare costosi processi logistici oltre che di adattamento del prodotto. Investire per proporre i propri prodotti ai consumatori finali in questi mercati, dove i modelli distributivi non sono ancora sviluppati ed è necessario un innovativo approccio al mercato, è purtroppo fuori dalla portata di molte aziende italiane. A essere critico è anche il modello organizzativo delle aziende che non si limitino al semplice export, ma che affrontino il mercato tenendo conto dei diversi contesti locali. In imprese dominate dal familismo nella selezione del management o da una governance opaca, non è facile attrarre e motivare talenti internazionali in grado di gestire l'ingresso sui nuovi mercati. Non bastano infine le forze della singola azienda senza un adeguato supporto istituzionale. L'Europa ha scelto, un po' ideologicamente, di fare la prima della classe nella contendibilità delle proprie imprese (in questo speculare agli Usa: fautori del libero mercato all'estero ma protezionisti in casa), ma non ha mai fatto politica estera a loro supporto, lasciando ai singoli stati nazionali ogni sostegno all'internazionalizzazione. In questa incoerenza europea, mentre paesi come Germania e Francia hanno agito con determinazione, l'Italia non ha saputo supportare adeguatamente le proprie imprese: faticando all'estero, si arrocca in difesa all'interno. Ma è il capitalismo, bellezza: di fronte a un caso Parmalat, ce ne sono altri di successo internazionale; per rimanere nel settore alimentare, Ferrero, Perfetti o Autogrill. O al contrario, storici brand italiani acquistati da multinazionali sono stati rilanciati con successo: si pensi a S.Pellegrino o a Peroni. La proprietà non è necessariamente una variabile indipendente del successo d'impresa.