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Per capire la crisi di mercato guardiamo dentro le imprese

, di Anna Grandori - professore ordinario presso il Dipartimento di management e tecnologia
Tornano in discussione il meccanismo degli incentivi, la massimizzazione del valore per gli azionisti e il mito della crescita

Nei dibattiti sulla crisi è mancato un tassello importante: l'analisi sulle cause microeconomiche, a livello d'impresa. Poiché essa si manifesta sui mercati a livello macroeconomico, si tende a ricercarne le cause nei meccanismi di mercato e negli squilibri macroeconomici.

Di certo, cause macroeconomiche ve ne sono. In particolare è vero, come ha notato Padoa Schioppa in apertura delle giornate di Economia & società aperta, che il mercato ha capacità autocorrettive, ma solo a certe condizioni: in primis richiede che chi acquista abbia competenza per giudicare la qualità e il valore di ciò che viene offerto. Inoltre, non c'è niente di più regolato di un libero mercato: esso ha bisogno di regole e controlli per mantenere la concorrenza e garantire il consumatore. È chiaro che i mercati finanziari globali non soddisfacevano né l'uno né l'altro requisito. Ne consegue che la crisi è stata sia una crisi del mercato, per deficit di conoscenza; sia una crisi della regolazione, per deficit d'istituzioni e regole globali. Questi problemi di governance macroeconomica sono stati discussi, anche se gli analisti hanno inquadrato il problema dividendosi tra critici del mercato e critici della regolazione, secondo il vecchio clichè dell'opposizione stato-mercato che impedisce di vedere soluzioni innovative. Se si risale la corrente verso le sorgenti del fiume, si trova una terza crisi, oltre a quella del mercato e della regolazione: decisioni distorte all'interno delle imprese. Quali micromotivazioni hanno portato a macrocomportamenti così disastrosi? Perché i manager delle banche hanno potuto proporre titoli tossici? Perché i manager delle grandi imprese hanno pensato di moltiplicare il leverage da indebitamento e il guadagno di origine speculativa in modo così sfrenato? Tutti malandrini? No, la spiegazione moralistica suona superficiale. Una causa di tali comportamenti è stata la diffusione, in imprese troppo grandi per permettere gli usuali strumenti di controllo gerarchico, di schemi di incentivo ispirati all'idea di allineare gli obiettivi di chi ha responsabilità decisionali all'obiettivo di massimizzazione del valore per gli azionisti. Le cause micro della crisi risiedono dunque in almeno due fattori collegati: le dimensioni raggiunte dalle imprese e il modo di governarle. Quanto agli incentivi come mezzo di governance, innanzitutto un'applicazione accurata delle stesse teorie economiche che hanno diffuso l'idea dell' 'allineamento degli obiettivi' non condurrebbe affatto a prescrìvere incentivi legati al corso delle azioni e 'pay for performance' in alte dosi . Legare la retribuzione dei manager al corso delle azioni funzionerebbe se tale valore fosse un indicatore affidabile del valore dell'impresa, e se questo dipendesse in larga misura dall'azione manageriale. Ma così non è. Il valore delle azioni è fortemente condizionato da fattori soggettivi, imponderabili e speculativi; e il valore dell'impresa non dipende solo dalle decisioni dei suoi dirigenti. Secondo, l'idea che l'impresa vada governata massimizzando il ritorno per gli azionisti intacca il principale beneficio della forma della società per azioni: quello di separare gli interessi dell'impresa come istituzione da quelli privati di qualunque attore, inclusi coloro che conferiscono il capitale. E intacca il principale beneficio dell'organizzazione d'impresa: quello di integrare in modo cosciente e deliberato obiettivi qualitativamente diversi, dall'innovazione tecnologica, al design di beni che soddisfino esigenze specifiche. Quanto alle dimensioni dell'impresa, la vulgata è che solo le grandi imprese possano reggere la competizione globale. In realtà si sa benissimo che esiste una dimensione ottima dell'impresa e che questa varia in funzione di molti fattori.Tra questi, le tanto menzionate economie di scala non sono il principale: si possono realizzare anche senza integrazione verticale e orizzontale, come i distretti industriali hanno dimostrato. I costi di coordinamento e controllo della grande impresa, invece, sono importanti, in questa crisi in particolare. Ciò di cui poco si parla è che le grandi imprese sono state governate come delle economie pianificate. Ma grandi economie d' impresa, non meno di grandi economie nazionali, non possono esser governate tramite piani e autorità come imperi centralizzati, perché tali regimi sono incompatibili con la complessità e l'incertezza. In primis, dunque, sarebbe opportuno rivedere il mito della crescita dell'impresa. Inoltre, si potrebbe ricordare che, oltre a piani, autorità e regole da un lato, e mercato, incentivi e prezzi dall'altro, esiste un terzo sistema che realizza a un tempo decentramento e coordinamento consapevole nelle grandi organizzazioni, che di solito va sotto il nome di democrazia. Quindi, quando si parla di riforme strutturali e istituzionali si dovrebbe orientare lo sforzo non solo a costruire nuove istituzioni sovra-ordinate, con nuove regole di trasparenza per i mercati mondiali, specie finanziari, ma anche a una riforma dell'ordinamento interno delle istituzioni sotto-ordinate, con nuove regole di rappresentanza e integrazione di conoscenze e interessi nel governo delle imprese. Uno sforzo basato su scienze economiche e manageriali atte non solo a prevedere gli eventi, ma anche a progettare strutture robuste, che agli eventi imprevedibili resistano.