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Banche. Cambiamenti sì, rivoluzione no

, di Andrea Sironi - rettore dell'Universita' Bocconi
Più attenzione alla gestione del passivo e modelli di rischio meno ottimisti e quindi più credibili

È verosimile che emerga un diverso modo di fare banca come conseguenza dei problemi emersi con la crisi finanziaria? Più che una modifica radicale è lecito immaginare, su questo fronte come su quello delle regole, una serie di cambiamenti importanti.

Innanzitutto, sul fronte della gestione del passivo. Prima della crisi, la convinzione che il mercato interbancario, e il mercato monetario in genere, fossero caratterizzati da liquidità potenzialmente infinita aveva fatto sì che l'attenzione del management delle banche fosse prioritariamente concentrata sul lato dell'attivo. Si dava per scontato che eventuali rischi di tasso o di liquidità derivanti da squilibri nella struttura per scadenze di attivo e passivo fossero agevolmente gestibili mediante ricorso a questi mercati o mediante utilizzo di strumenti derivati. Analogamente, l'immagine di solidità di cui l'industria bancaria godeva nei mercati dei capitali poneva in secondo piano la gestione del patrimonio, la quale era considerata, in molti gruppi bancari, alla stregua della semplice verifica del rispetto di un vincolo normativo. La crisi ha posto nuovamente al centro dell'attenzione da un lato il rischio liquidità, dall'altro la gestione del capitale, nelle sue diverse componenti. Tornano dunque a dominare l'attenzione del management bancario aspetti quali la duration del passivo, la struttura per scadenze di attivo e passivo, le fonti finanziarie e il funding risk, la qualità del capitale e gli strumenti che compongono il patrimonio di vigilanza, l'adeguatezza del capitale rispetto ai rischi assunti. Ciò si collega anche al tema dell'equilibrio fra depositi e prestiti. Su questo fronte, il problema è legato all'importanza del rapporto prestiti-depositi come determinante della redditività di lungo periodo di una banca. Una struttura equilibrata di raccolta e impieghi, così come riflesso nel semplice rapporto "loans to deposits", è divenuta elemento premiante per il giudizio dei mercati. La logica sottostante questo fenomeno è semplice. Una banca può essere vista come un portafoglio di due attività: un'attività d'intermediazione tradizionale, rappresentata appunto da depositi e prestiti, che genera margine d'interesse; un'attività di investment banking, di negoziazione nei mercati dei capitali e in generale di offerta di servizi, che genera margini commissionali (fee income) e capital gain. L'evidenza empirica mostra che la prima attività si caratterizza per un minore grado di volatilità dei risultati reddituali, dunque per un minor grado di rischio. In questo senso, nelle fasi di crisi come quella attuale, l'attività "fee income" tende a perdere di rilevanza. Cresce dunque il peso dell'attività meno rischiosa, che consente di ridurre il rischio complessivo della banca e che funge in qualche modo da "shock absorber". Sul banco degli imputati, accusati di aver contribuito alla crisi, siedono anche i modelli di misurazione dei rischi. L'accusa è fin troppo semplice: fondati sull'ipotesi irrealistica del ripetersi della storia passata (quest'ultima rappresentata da rendimenti positivi elevati, limitata volatilità, bassi tassi di insolvenza, elevati tassi di recupero, spread creditizi contenuti), essi hanno sottovalutato la dimensione dei rischi assunti dalle banche. Se questa critica è fondata, ne deriva anche che i modelli di risk management diverranno in futuro non solo più importanti ma anche più credibili. Essi potranno fondarsi sull'evidenza empirica di un periodo caratterizzato da rendimenti negativi di assoluto rilievo, elevata volatilità, forte crescita dei tassi di insolvenza, ridotti tassi di recupero. I modelli utilizzati saranno peraltro integrati sempre più da approfonditi esercizi di stress testing volti a identificare le aree di vulnerabilità della banca.

Come conseguenza dei punti precedenti, la maggiore attenzione attribuita a una risorsa scarsa, il patrimonio, e la maggiore rilevanza e credibilità dei modelli di risk management, è anche verosimile attendersi che il management delle banche presti in futuro maggiore attenzione a un utilizzo efficiente del capitale, introducendo adeguate politiche di allocazione a quelle unità o divisioni che dimostrano di essere in grado di generare una superiore redditività corretta per il rischio sostenibile nel tempo.