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Anche la marea nera insegna

, di Luigi De Paoli - senior professor di economia e politica dell'energia
Nel Golfo del Messico sono mancate le regole e il controllo pubblico

L'incidente alla piattaforma mobile Deepwater Horizon, affondata il 20 aprile, entrerà nella storia. Non si sa né quanto petrolio sia già uscito dal pozzo, né quanto ne uscirà. Le stime di fine maggio del gruppo tecnico costituito dal governo americano parlavano di 12.000-19.000 barili al giorno (tra 2 e 3 milioni di litri), ben di più dei 1.000 barili al giorno inizialmente comunicati dalla BP, la compagnia petrolifera per conto della quale stava lavorando la piattaforma. A fine giugno si parlava già di 60-100.000 barili al giorno. A questo ritmo, è già stata riversata in mare una quantità di diverse volte superiore a quella uscita dalla petroliera Exxon Valdez al largo dell'Alaska nel 1989. Siamo però ancora al di sotto della marea nera provocata sempre nel Golfo del Messico da un altro pozzo, l'Ixtoc I, che nel 1979 versò in mare quasi 500 mila tonnellate di petrolio.

Questo incidente e le sue gravissime conseguenze stanno ravvivando la polemica sulle due cause principali di maree nere: gli incidenti alle petroliere e quelli alle attività di produzione di greggio in mare. Il trasporto di petrolio ha dato luogo a molti incidenti che però, malgrado l'aumento del traffico, sono andati diminuendo grazie al miglioramento della sicurezza delle petroliere e al controllo della navigazione. Per rendere l'idea si pensi che nel decennio degli anni '70, secondo l'International Tanker Owners Pollution Federation, sono state riversate in mare 3.140.000 tonnellate di greggio mentre nel decennio 2000-2009 le perdite sono state 'solo' di 206.000 tonnellate. Per l'esplorazione e la produzione di petrolio offshore le prospettive sono diverse. Oggi circa il 40% del petrolio è prodotto offshore. Nel mondo vi sono migliaia di piattaforme marine e più della metà (circa 4.000) si trovano nel Golfo del Messico. In Italia ve ne sono un'ottantina, quasi tutte nel Mare Adriatico. Ben diverse però sono le condizioni in cui operano. Due sono i fattori fondamentali che determinano le difficoltà e quindi i rischi della perforazione dei pozzi e dell'estrazione del petrolio: la profondità del mare e le condizioni climatiche. Oggi le piattaforme operanti con un battente d'acqua di poche decine di metri (come nell'Adriatico) sono considerate banali: la frontiera comincia verso i 1.000 metri e si è già arrivati a perforare un pozzo in 3.000 metri d'acqua. Il pozzo su cui lavorava la Deepwater Horizon cominciava a 1.500 metri ed era profondo altri 4.000. L'altro aspetto sono le condizioni climatiche: i pozzi costruiti nell'offshore dell'Alaska non sono molto profondi, ma le condizioni climatiche invernali sono facilmente immaginabili. In altri casi sono i venti, le onde o le correnti a creare problemi. Nonostante tali rischi, finora il "track-record" della produzione offshore di idrocarburi può dirsi buono e gli incidenti gravi sono stati solo tre (compreso quello alla Deepwater Horizon). Viste così le cose, si potrebbe pensare che non ci sono gravi motivi per interrompere l'esplorazione e la produzione marina. Tuttavia, man mano che le possibilità di cercare petrolio in terraferma si assottigliano, le compagnie si spingono in acque sempre più profonde o inospitali. Ad esempio, il prossimo sviluppo della produzione mondiale è atteso dall'offshore brasiliano e un mese prima dell'incidente della Louisiana il presidente Obama aveva fatto dichiarazioni a favore della riapertura delle esplorazioni nel Golfo del Messico e in Alaska. L'infelice coincidenza con l'incidente alla Deepwater ha messo ovviamente in difficoltà l'amministrazione americana e rafforzato le richieste di uno stop all'esplorazione offshore. Ancora una volta siamo di fronte a due punti di vista opposti. Da un lato gli ambientalisti che invocano il principio di precauzione, dall'altro chi ritiene che anche le grandi catastrofi portino a migliorare le tecnologie e le istituzioni. È indubbio che i gravi incidenti siano dovuti talora alle defaillance tecniche, ma molto più spesso a quelle umane. Per limitarne la probabilità servono dunque migliori regole e maggior controllo pubblico, proprio quello che sembra essere mancato nell'incidente del Golfo del Messico.